SUPERLUGLIO A PALAZZO
CHIGI
L’odio di classe al governo
di Leonardo Mazzei
Mentre non passa anno senza che qualche
nostalgico fantastichi (in estate) su improbabili
“autunni caldi”, frutto di una fervida memoria ferma da
almeno trent’anni, capita ormai con una certa frequenza
che il caldo della lotta di classe si concentri nel mese
luglio.
E’, però, una lotta di classe alla
rovescia, con la quale – pezzo dopo pezzo – le classi
dominanti si riprendono tutto: dall’indicizzazione dei
salari alla contrattazione collettiva, dai diritti dei
lavoratori alle pensioni.
Luglio 2007 non ha fatto eccezione.
Anzi, da questo punto di vista è stato davvero un
superluglio, mica abbiamo ancora l’inefficiente governo
Berlusconi!
Blindatura del peggioramento del sistema
pensionistico e stabilizzazione della precarizzazione
del lavoro sono stati i piatti forti serviti a Palazzo
Chigi da frotte di camerieri prezzolati, ma esibenti con
gioia la qualifica che dà oggi la licenza di uccidere:
riformista.
Forti di questo patentino, giornalmente
rilasciato dal sistema dei media, il mese di luglio è
stato quello dell’orgia “riformista”, dove ogni aderente
al club cercava di incrementare i punti della propria
patente in una corsa a tagliare (le pensioni) e a
precarizzare (il lavoro).
Ma l’orgia non è stata solo mediatica.
Anzi, quest’ultima serviva in realtà a coprire la
portata di quel che stava avvenendo nel Palazzo del
Governo, dove si andava materializzando un gigantesco
atto della lotta di classe dei dominanti nei confronti
dei lavoratori salariati di ogni fascia di età, checché
ne dica la retorica giovanilista alla moda.
Infatti, come la guerra abbisogna della
propaganda, anche l’attacco “riformista” di luglio
necessitava di un’adeguata manipolazione della pubblica
opinione, in modo da creare un’opinione distorta o, alla
peggio, di impedire il formarsi di una qualsiasi
opinione.
Naturalmente, tra i lavoratori più
coscienti è assai chiara la percezione di aver subito
l’ennesimo inganno, meno chiara è la consapevolezza
della portata di questo inganno. Il “sono tutti uguali”
è ormai nel senso comune dei più. Ben pochi sui posti di
lavoro difendono ancora quello che molti credevano fosse
“il loro governo”.
Alla consapevolezza dell’inganno si
accompagna però la rassegnazione. Ecco perché gli
annunci estivi di un “autunno caldo”, da parte del ceto
politico radical-collaborazionista in partenza per le
vacanze, davvero non convince nessuno.
Se per i giornalisti da strapazzo questa
è merce da utilizzare per riempire la pagina bianca,
così si alimenta il cosiddetto “dibattito politico” tra
i cosiddetti “riformisti” e la cosiddetta “sinistra
radicale” (per noi, sinistra collaborazionista); per i
lavoratori è un’altra presa in giro. Tutti sanno come
stanno le cose: il protocollo di intesa è stato firmato
da Cgil-Cisl-Uil (sia pure con i mal di pancia della
Cgil), la sinistra di governo si è limitata a convocare
un’inutile manifestazione ad ottobre, in parlamento non
esiste alcuna possibilità di cambiamento sostanziale in
senso migliorativo degli indirizzi sottoscritti a
luglio.
Blindatura è il termine che viene non a
caso usato.
Blindato è l’accordo, blindato è
l’equilibrio dei conti, blindato è il futuro delle
pensioni, blindata è la certezza di un lavoro sempre più
precario, blindato è il governo a dispetto dell’esiguità
della maggioranza di cui dispone, blindato è il pensiero
se perfino Claudio Magris ha sentito il bisogno di
scendere in campo a difesa di lorsignori, blindata è
infine la subalternità dei Giordano e dei Diliberto (dei
Mussi e dei Pecoraro non merita neppure parlare, dato
che sulle pensioni hanno detto da subito sì).
In astratto questa blindatura non
impedirebbe di per sé la lotta, ma le condizioni
concrete di quello che fu il movimento operaio impedisce
ogni ottimismo.
Certamente nuove stagioni di lotta vi
saranno, ma non sembrano proprio all’orizzonte dei
prossimi mesi. Se poi ci sbagliamo, viva l’errore!
Quello che è certo è che occorre
ricostruire una cultura anticapitalista, fondata non più
sulle grandi narrazioni tipo “sol dell’avvenir” e
dintorni, ma sull’analisi concreta del capitalismo
reale, capace di vedere la società e non solo
l’economia.
Detto per inciso, nel secolo scorso i
critici del comunismo, pur non venendo meno al loro
anticomunismo di fondo, concentravano i loro sforzi non
sui modelli teorici, bensì sulla critica di quello che
chiamavano “socialismo reale” ed alla fine hanno
vinto. Non sarebbe il caso di imparare dal nemico?
I protocolli del superluglio dei
dominanti ci parlano appunto di questo capitalismo
reale.
E’ utile perciò esaminarli con
attenzione.
Una vita da precario
Da tempo sono finiti i tempi in cui
qualcuno pensava ad un capitalismo capace di occuparsi
del cittadino-lavoratore dalla culla alla bara.
Oggi, per non smentire questa visione
onnicomprensiva, il capitalismo si dà da fare per
precarizzare l’intera esistenza: non solo il lavoro, in
virtù delle esigenze della competitività, ma anche la
pensione. Nell’età della pensione non c’è più da
“competere”, ma c’è pur sempre qualcosa da spremere. In
questo caso la spremitura si chiama spinta alla pensione
integrativa, in modo da mettere in mano agli indici
finanziari la qualità della vita della propria
vecchiaia.
Partiamo dunque dalle pensioni, un tema
che interessa la totalità dei lavoratori.
Una pensione più lontana e più povera
Sfatiamo subito alcuni luoghi comuni.
I conti del sistema previdenziale
italiano ci vengono presentati come catastrofici o
quantomeno a rischio. E’ falso: il fondo dei lavoratori
dipendenti è attualmente (dati Inps) in attivo di 3,5
miliardi di euro, mentre le entrate contributive (anche
a causa dell’ultima finanziaria) sono in continuo
aumento.
Si dice che il rapporto tra pensionati e
lavoratori attivi sarebbe in costante crescita a causa
dell’andamento demografico. E’ falso: questo rapporto
che era di 74 a 100 nel 2001 è oggi di 71 a 100, dato
che l’andamento demografico naturale è corretto da un
lato dall’afflusso dei lavoratori immigrati e dall’altro
dalla tendenza “spontanea” (in realtà indotta
dall’accrescersi del divario tra salario e pensione,
altro che spontaneità!) ad andare comunque in pensione
più tardi.
Si dice che l’Italia avrebbe di gran
lunga i pensionati più giovani d’Europa. E’ falso, visto
che l’età effettiva di pensionamento è superiore a
quella della Francia ed assai vicina (pochi mesi di
differenza) a quella della Germania.
Partendo da questo insieme di falsità si
è costruito il “superamento”- termine tanto ricorrente
nel programma prodiano, quanto magico ed ambiguo, dato
che si può sempre superare in peggio – della legge
Maroni.
Ed effettivamente, bisogna riconoscerlo,
Prodi, Damiano e Padoa Schioppa si sono davvero
superati, nel congegnare un autentico imbroglio, di cui
ora passiamo a vedere i punti centrali.
Imbroglio numero uno: le “quote” e
gli “scalini”
Agli italiani, distratti dal quotidiano
istupidimento del sistema informativo, è stata
raccontata per settimane la seguente favola: questo
governo, che non è rozzo come il precedente, ha allo
studio dei meccanismi più flessibili per sostituire il
rigido “scalone” lasciatoci in eredita dal rozzo padano
Maroni. Uno scalino in più sì, per passare dai 57 anni
attuali per la pensione di anzianità con 35 anni di
contributi a 58 anni dal 2008, ma poi flessibilità
grazie all’innovativo sistema delle quote, intese come
somma dell’età anagrafica e degli anni di contributi
versati.
Anche sulle quote si davano ovviamente i
numeri, non oltre 95 per Rifondazione, 96, forse 97 per
gli altri. Tuttavia, un punto sembrava essersi
affermato: l’elasticità del meccanismo, senza la quale
del resto non ha obiettivamente senso parlare di quote.
Molti lavoratori hanno perciò iniziato a
fare calcoli, valutando ad esempio di poter andare in
pensione con 58 anni di età e 37 di lavoro (quota 95), o
magari, con le quote successive, con 59 di età e 38 di
lavoro (quota 97).
Errore, niente da fare, i fautori per
mestiere della flessibilità, questa volta hanno deciso
di essere rigidi. E la mattina dell’accordo si è così
scoperto che le quote proprio non esistono, se non come
finzione.
In realtà il protocollo stabilisce che
si matura il diritto alla pensione (che ancora non vuol
dire “andare in pensione”, dato l’altro imbroglio delle
finestre di cui ci occuperemo in seguito) con 35 anni di
anzianità contributiva, alle seguenti età:
-
58 anni dal 1° gennaio 2008
-
60 anni dal 1° luglio 2009
-
61 anni dal 1° gennaio 2011
-
62 anni dal 1° gennaio 2013
Noterete che questa mia tabella è un pò
diversa da quella diffusa dal governo e pubblicata dai
giornali. Lo è per svelare l’imbroglio. Ho infatti
riportato soltanto le condizioni minime per maturare il
diritto alla pensione con 35 anni, mettendo in evidenza
come di fatto i “democratici” scalini del centrosinistra
siano in realtà quattro autentici scaloni, fissati a
58, 60, 61 e 62 anni.
Che cosa hanno escogitato i
centrosinistri imbroglioni al governo per mascherare il
loro inganno?
Semplice, hanno definito “quota 95”, la
generosa possibilità di andare in pensione con 59 anni e
36 di contributi dal 1° luglio 2009 al 31 dicembre 2010.
Ma, a differenza della pretesa
elasticità, l’età anagrafica è vincolante. Ora dovrebbe
essere ovvio (ma temo che non lo sia del tutto!) che chi
avrà 36 anni di lavoro con 59 anni di età nel 2009, ne
aveva 35 all’età di 58 nel 2008. Dunque, il lavoratore
del nostro caso aveva già avuto in precedenza la
possibilità di andare in pensione. Gli unici
“beneficiati” saranno i lavoratori che raggiungeranno i
59 anni con 36 di contributi tra il 1° luglio e il 31
dicembre 2010, una condizione assai particolare che
riguarderà al massimo qualche migliaio di lavoratori.
Ridicola in ogni caso l’entità del beneficio: un massimo
di 6 mesi per chi ha avuto la fortuna di nascere il 1°
luglio!
Se la “quota 95” del 2009 (intesa come
59+36) non verrà dunque utilizzata quasi da nessuno,
servirà invece ad elevare in un colpo solo l’età di
pensionamento di due anni, arrivando così ai famosi 60
anni dello scalone del vituperato Maroni in un solo anno
e mezzo: alla faccia degli scalini!
Un’opera così ben avviata non poteva che
concludersi in bellezza.
Dal primo gennaio del 2011 la soglia
anagrafica è di 61 anni (perfettamente in linea con
quanto previsto dalla legge Maroni). Per la “quota 96”
contrabbandata a questa data, per cui un sessantenne
potrebbe andare in pensione a condizione che abbia 36
anni di contributi, valgono le considerazioni già svolte
per “quota 95”.
Questo brillante allineamento consente
poi il vero oltrepassamento della legge del
governo Berlusconi.
Quella legge prevedeva nel 2013 una
verifica dei conti per decidere se innalzare o meno
l’età pensionabile a 62 anni.
Il protocollo di luglio, volendo far
giustizia di ogni incertezza, decide invece il passaggio
automatico a 62 anni dal 1° gennaio 2013. E così anche
Maroni è stato superato ed il “popolo di
sinistra” servito.
Imbroglio numero due: i lavori
usuranti, ovvero la negazione pratica di un diritto
affermato solo a parole
Questo stesso “popolo”, deluso sullo
scalone, ha pensato di trovare qualcosa di buono nella
parziale esenzione dall’aumento dell’età pensionabile
dei lavoratori che svolgono attività usuranti.
Esenzione parziale, perché comunque
l’innalzamento a 58 anni varrà anche per gli usurati.
Ma non è questo il cuore dell’imbroglio,
in questo caso un vero e proprio schiaffo al principio
di uguaglianza. Diciamo di più: questo imbroglio, il
modo in cui è stato confezionato, è un oltraggio
all’intelligenza delle persone ed un insulto ad ogni
valore di moralità nella vita pubblica.
Ma andiamo per ordine.
Il protocollo precisa le categorie
rientranti nei “lavori usuranti”: lavoratori compresi
nel “decreto Salvi” del 1999 (minatori, cavatori,
sommozzatori ecc.), lavoratori turnisti che effettuino
almeno 80 notti all’anno, addetti alle linee a catena,
conducenti di mezzi pubblici pesanti, il tutto per una
platea prevista di circa un milione e 400mila persone.
Naturalmente questo elenco ha delle
significative assenze, tra le quali è opportuno
segnalarne una: i lavoratori dell’edilizia.
Ognuno di noi conosce il grado di usura
di questa attività (esposizione al caldo e al freddo,
all’umido, alle polveri, al rischio di incidente,
eccetera). “Stranamente” questa categoria non solo è
stata omessa dall’elenco degli usurati, ma ancor più
significativamente è stata cancellata anche dal
dibattito che ha preceduto la proposta governativa.
Nessuno, né il Prc, né i sindacati, né
altri ne hanno parlato. E questo è un “dettaglio” che
merita qualche riflessione. Perché questo silenzio? Una
ragione dovrà pur esserci. Personalmente me ne sono date
due. La prima, sicuramente più evidente ma ritengo meno
decisiva, sta nell’entità numerica della categoria la
cui inclusione avrebbe grosso modo raddoppiato la platea
degli usurati. La seconda, meno evidente ma decisiva,
sta nel fatto che la forza lavoro dell’edilizia è ormai
in buona parte costituita da lavoratori immigrati privi
di ogni rappresentanza politica e sindacale, vera carne
da macello il cui destino non interessa a nessuno.
Anche a voler considerare soltanto la
prima spiegazione di natura economica (poi, arrivando al
cuore dell’imbroglio, vedremo che le questioni
economiche sono già state brillantemente risolte in
altro modo e dunque la spiegazione decisiva è in realtà
la seconda) avremmo la subordinazione di un diritto alle
esigenze di cassa, giusto per mettere in luce i criteri
sociali che ispirano i protocolli.
Ma considerando invece come più
attendibile, o comunque prevalente, la seconda
spiegazione, ce n’è davvero abbastanza per dare un
giudizio politico e morale sul governo e sulle sue
appendici di sinistra che su questo non hanno nemmeno
speso una di quelle tante parole che in genere
consegnano al vento più che agli atti della storia.
Anche se ci fermassimo qui, a questa
clamorosa esclusione, avremmo già chiaro come gli
imbroglioni di luglio hanno avuto la capacità di
trasformare in una nuova ingiustizia l’applicazione di
un principio in sé giusto e da rivendicare, come quello
del riconoscimento di un fatto così evidente come la
diversa usura insita nei diversi lavori.
Detto in altre parole: messo nelle mani
di questi farabutti anche il più nobile dei principi è
destinato a trasformarsi in merda.
Ma veniamo al punto in cui l’imbroglio
diventa colossale ed insopportabile.
Ragionando su una platea di un milione e
400mila persone in attività, da dividere in 35 fasce
anagrafiche, si ottiene un numero medio di 40.000 unità
per ogni fascia. Ne consegue che circa 40.000 lavoratori
all’anno dovrebbero andare in pensione usufruendo
dell’esenzione in questione, potendo così anticipare la
propria uscita dal lavoro.
I sostenitori dell’accordo, come i suoi
critici moderati, si sono dati un gran da fare per
evidenziare questa conquista sociale (dove per
“conquista” deve intendersi comunque la mera
attenuazione del peggioramento previsto per la
generalità dei lavoratori).
Ma ad un certo punto a Padoa Schioppa,
forse pressato dagli ultras rigoristi, sono scappati dei
numeri: “ne usufruiranno”, ha detto, “dai 5 ai 7mila
lavoratori all’anno”. Perché 5-7mila e non 40mila?
All’inizio si poteva pensare al solito
teatrino governativo, dove a Padoa Schioppa tocca la
maschera del rigore, salvo quando deve annunciare i
ricchi finanziamenti alle imprese.
Poi, però, il protocollo ha preso a
circolare, ed in esso sta scritto che a prescindere dai
requisiti, i lavoratori riconosciuti come soggetti al
lavoro usurante saranno contingentati in numero di 5.000
all’anno, fino al 2017, anno in cui è già prevista la
nuova verifica dei conti. Una commissione tecnica dovrà
quindi definire le graduatorie perché i tetti numerici
dovranno essere rigorosamente osservati.
La presa in giro è evidente: a 7
lavoratori su 8 verrà spiegato che hanno sì un diritto,
ma che tale diritto sarà reso inesigibile dai
vincoli di bilancio. Da sempre un diritto è tale se è
universale, se chi ne è portatore può esigerlo, e
comunque non si è mai visto un diritto sottoposto ad una
commissione che dirà ai più: siete usurati, ma non
abbastanza; datevi da fare che forse il prossimo anno
tocca a voi.
Una simile porcata non ha davvero
bisogno di commenti.
Imbroglio numero tre: finestre per
tutti
Nel linguaggio comune la finestra è
un’opportunità, nel sistema pensionistico è una
fregatura.
A cosa servono le finestre? Servono a
ritardare la data della pensione rispetto alla
maturazione del diritto. Ad esempio, con quattro
finestre chi matura il diritto alla pensione nel 3°
trimestre dell’anno va in pensione alla fine del 4°
trimestre, con un ritardo che va quindi da un minimo di
tre ad un massimo di sei mesi. Con due finestre, come
quelle previste dalla legge Maroni, il ritardo va da un
minimo di sei mesi ad un massimo di un anno.
E’ evidente dunque che il sistema delle
finestre è di per sé truffaldino, dato che posticipa
comunque il godimento di un diritto maturato.
Ma anche qui il governo Prodi ha deciso
di fare meglio, “superando” di nuovo la legge
Maroni. Ed ancora una volta lo fa in maniera
truffaldina, mettendo in evidenza un piccolo
miglioramento, la promessa del passaggio da due a
quattro finestre per chi ha 40 anni di contributi, per
nascondere un notevole peggioramento:
l’introduzione delle finestre a chi oggi non ce l’ha, né
le avrebbe avute con la Maroni, cioè a chi va in
pensione di vecchia - gli uomini a 65 anni e le donne a
60.
Questo significa che ai 65 o 60 anni si
dovranno aggiungere altri 3-6 mesi di lavoro.
Anche questo innalzamento dell’età
lavorativa a chi ha raggiunto i limiti definiti non a
caso di vecchiaia non richiede ulteriori commenti.
Interessante è la stima economica di
questi interventi. Che il costo per i lavoratori sia
superiore ai benefici è cosa assai evidente, dato che
coloro che vanno in pensione con 40 anni di contributi
sono assai meno di quelli che ci vanno con i requisiti
di vecchiaia. Ma, a scanso di equivoci, gli estensori
del testo si sono preoccupati di esplicitarlo. Nel
protocollo d’intesa si precisa infatti che i risparmi
ottenuti con questo intervento sulle finestre serviranno
a coprire diverse spese tra cui quelle per 5.000
lavoratori posti in mobilità che con gli “scalini” non
avrebbero più copertura fino alla pensione.
Dunque, al di là della scandalo
dell’innalzamento mascherato dell’età della pensione di
vecchiaia, abbiamo un governo che (non dimentichiamolo,
non rispetto all’oggi, ma addirittura in confronto a
quanto previsto dalla Maroni) con una mano dà e con
l’altra prende. Ma quel che prende è più di quel che dà.
Imbroglio numero quattro: la
revisione dei coefficienti ed una promessa già
rimangiata
La legge Dini (legge 335 del 1995) è
stato un capolavoro controriformatore. Un’opera d’arte
allora benedetta da Cgil-Cisl-Uil ed accettata da chi in
nome di una politica ormai vuota, alla quale si cercava
di dare disperatamente un’anima con l’antiberlusconismo,
implorava allora a tutti di “baciare il rospo”.
Quel rospo (Lamberto Dini) è sempre
vivo, e l’abbiamo visto all’opera nelle settimane
precedenti il parto del 20 luglio. Quel che è peggio è
che gli effetti della sua controriforma si fanno oggi
sentire ben al di là di quanto si potesse immaginare. Le
pensioni calcolate con il sistema contributivo saranno
tra qualche anno la maggioranza, fino a diventare
progressivamente la totalità. Oggi sappiamo che in base
a quella legge avremo vere pensioni da fame. Un
lavoratore giovane può attendersi un tasso di
sostituzione (pensione rispetto alla retribuzione) sotto
il 50%, rispetto al 70-80% (a seconda delle categorie)
del sistema retributivo.
Per portare a termine questo autentico
massacro sociale, premessa imprescindibile per far
veramente decollare i fondi pensione integrativi, la
legge Dini prevedeva l’adeguamento dei coefficienti di
trasformazione. Questa operazione è l’architrave del
disegno controriformatore: attraverso di essa si ha la
garanzia della stabilizzazione dei costi previdenziali
calcolati come quota del Pil, per cui ad un aumento
numerico degli anziani si risponde con la destinazione
ad essi di una quota di Pil (il 14% circa) invariabile.
Ovvio che questo significhi
impoverimento individuale, dato che la stessa fetta
della torta dovrà essere spartita tra un numero maggiore
di individui.
Ragioni elettorali prima (2005, governo
Berlusconi), e comunque ragioni di consenso poi (2006,
governo Prodi) hanno consigliato il rinvio di questa
operazione. Ma ora, grazie al protocollo del 20 luglio,
abbiamo una data certa: a partire dal 1° gennaio 2010
scatta l’adeguamento dei coefficienti, che poi avverrà
automaticamente ogni tre anni.
La stampa si è dilungata nel presentare
questa operazione come lunga e complessa, dato che verrà
costituita una commissione ad hoc che avrà il compito di
studiare gli equilibri pensionistici nel lungo periodo.
Non facciamoci ingannare. Allegata al
protocollo c’è già la tabella dei nuovi coefficienti che
a partire dal 2010 ridurrà il valore delle pensioni
calcolate con il metodo contributivo del 6-8%. Così,
tanto per cominciare.
Si dirà che queste cose sono pessime, ma
che in questo caso non c’è imbroglio, dato che erano già
previste dalla legge del 1995. Errore: l’imbroglio c’è,
eccome.
Avrete letto sulla stampa di un grido
quasi commosso rivolto alla condizione dei giovani (tra
parentesi, saranno proprio i giovani con il sistema
contributivo a pagare il prezzo più caro del
controriformismo dei “riformisti”, ma chi glielo dice?),
un grido che ha portato alla scoperta che le loro
“riforme” condurranno a pensioni vergognosamente basse.
Da qui l’impegno di non portare il tasso di sostituzione
sotto il 60%.
Questo “impegno”, vedremo quanto
fasullo, ha entusiasmato i sostenitori ed i critici
moderati dell’accordo: finalmente si è dato qualcosa ai
giovani!
Anche se il 60% sbandierato fosse
attendibile, avremmo comunque una riduzione della
pensione del 15-25% rispetto ad oggi, a seconda che si
lavori nel settore pubblico o in quello privato.
Il fatto è che quel 60% non è affatto
attendibile.
Nei giorni successivi all’accordo si è
cominciato a precisare che il 60% è un obiettivo, una
meta a cui tendere, non proprio una garanzia. Diciamo
pure, in maniera più chiara, che di un’altra presa in
giro a costo zero si tratta.
Questa volta facciamo certificare la
presa in giro ad un ultras del “riformismo” e del
rigore. Così come nessuno metterebbe in dubbio
l’esistenza di un rigore contro il Milan riconosciuto
tale dal leader delle Brigate rossonere; nessuno vorrà
mettere in dubbio la certificazione di serietà
“riformista”, rilasciata da un ultras di questa
professione di fede, nei confronti di una misura prima
vista come un “cedimento nei confronti della sinistra
radicale”.
L’ultras in questione si chiama Nicola
Rossi, economista e parlamentare di maggioranza. La sua
soddisfazione l’ha espressa in risposta ad un degno
compare (Enrico Letta), precedentemente sospettato del
cedimento di cui sopra. Il chiarimento non è avvenuto
alla Domenica sportiva, ma sul Corriere della Sera del
31 luglio – un luogo assai frequentato da questi ultras
– al termine di un “botta e risposta” (si fa per dire)
durato alcuni giorni.
Lasciamo qui perdere il fraseggio
insulso di Letta, ambiguo ed espresso in politichese
come si conviene ad un candidato alla guida del Partito
Democratico. Più utili nell’afferrare l’essenziale le
parole di Rossi.
Leggiamolo dunque per fugare ogni
dubbio: <<La replica del sottosegretario alla
presidenza del consiglio (Letta, ndr) sgombra il
campo da una seria fonte di preoccupazione. Da essa si
evince, infatti, in maniera inequivoca che nessuna
garanzia è stata offerta dal governo ai sindacati –
semplicemente perché in base alla legislazione vigente
non poteva essere offerta – circa il livello minimo dei
trattamenti pensionistici dei giovani nei decenni a
venire. Una precisazione importante perché non
immediatamente evidente non solo nell’intervista di
Enrico Letta (apparsa qualche giorno prima, ndr)
ma anche e soprattutto nelle dichiarazioni successive
all’accordo, tanto di membri del governo e della
maggioranza quanto di esponenti sindacali>>.
La garanzia del 60% semplicemente non
c’è. Si è però cercato di venderla come tale. Ecco
perché oltre al danno c’è la beffa di questi imbroglioni
incalliti.
Imbroglio numero cinque: pagano i
precari
Avrete letto che l’insieme degli
interventi previsti dal protocollo ha tuttavia un costo
di 10 miliardi di euro in 10 anni. Ricordiamo che questo
aggravio non è raffrontato alla legislazione vigente
(legge Dini), perché in tal caso registreremmo invece
una enorme riduzione dei costi, ma alle attese di
risparmio determinate dalla legge Maroni, che sarebbe
entrata in vigore il 1° gennaio 2008.
Perché si parla proprio di 10 miliardi
in 10 anni? Per due motivi: il primo è che se si
parlasse di un solo miliardo all’anno, l’effetto sarebbe
quello di evidenziare un raffronto in sostanziale
pareggio con la Maroni (e d’altra parte questo misero
miliardo – che è uno zero virgola rispetto all’insieme
della spesa previdenziale - già se lo pagano i
lavoratori con l’aumento dei contributi dell’ultima
finanziaria). Il secondo è che a regime il sistema
uscito dall’accordo di luglio porterà addirittura a dei
risparmi anche rispetto alla Maroni.
Facciamo ora un piccolo confronto di
questo “aggravio”, presentatoci come quasi
insostenibile, con altre voci di spesa dello Stato.
Quanto costerà in 10 anni la riduzione
del cuneo fiscale, cioè del grazioso regalo elargito
alle imprese con uno dei primi atti del governo Prodi?
Come minimo 50 miliardi di euro, ma questa cifra è
destinata a lievitare notevolmente dato che pare che si
vogliano estenderne i benefici a soggetti (banche e
assicurazioni) che oggi ne sono esclusi.
E quanto costa il piano decennale delle
opere pubbliche, tra le quali troviamo ovviamente i
peggiori progetti di devastazione ambientale (Tav,
eccetera)? Come minimo i 118 miliardi di euro previsti,
ma qui sappiamo che i costi si dilatano con facilità .
Insomma, scusate la banalità, i soldi ci
sono per le imprese e per opere in larga parte destinate
ad alimentare l’affarismo e la corruzione, non ci sono
per lavoratori e pensionati.
Ma nonostante l’estrema esiguità del
miliardo annuo, un’elemosina che fa il paio con quella
dei 29 euro elargiti ai pensionati più poveri (quelli
sotto i 693 euro mensili, un’altra infamia che si
commenta da sola), Prodi, Damiano e Padoa Schioppa si
sono preoccupati di pareggiare questa uscita
facendola pagare in larga parte ai lavoratori
parasubordinati, i cosiddetti Co.co.pro e Co.co.co, che
vedranno aumentarsi i contributi di un punto percentuale
all’anno, dal 2008 al 2010 per un totale del 3%.
Ma questi “lavoratori a progetto”
(attualmente un milione e 780mila persone), che ci
mostrano un’Italia tutta intenta a progettare, non sono
forse i “giovani” di cui tutti si riempiono la bocca?
Imbroglio dunque, ma per costoro
imbroglio doppio, visti i contenuti del successivo
accordo detto, chissà perché (un altro imbroglio?),
“riforma del Welfare”.
Imbroglio numero sei: contratti senza
tempo
Dato che l’appetito vien mangiando, e
viste le deboli risposte dei dissenzienti – sia nella
maggioranza di governo che in ambito sindacale – i
“riformisti” hanno deciso di fare il pieno, superando
per molti aspetti la stessa legge Biagi.
A pochi giorni dall’accordo sulle
pensioni, è così seguito quello sulla legge 30.
Gli slogan per gonzi del tipo
“flessibilità sì, precarietà no” (ecco l’immancabile
imbroglio) sono stati tradotti nel protocollo d’intesa
in una conferma pressoché totale della legge Biagi, che
in alcune parti (le più importanti) viene opportunamente
peggiorata.
E’ questo il caso dei contratti a
termine, sui quali viene confermata la cancellazione di
ogni causale per la loro attivazione, affermando dunque
la totale libertà dell’impresa di assumere a termine per
generiche “necessità aziendali”.
Ma questo ancora non basta. Ed il vero
piatto forte dei “riformisti” è la possibilità di
rinnovo all’infinito dei contratti a termine, così come
viene sancita nel protocollo di luglio, laddove si
prevede la loro estensione senza limiti temporali, anche
dopo il “tetto” dei 36 mesi tra proroghe e rinnovi. Per
compiere questa operazione basterà recarsi presso la
Direzione Provinciale del Lavoro accompagnati
(indovinate perché) da un rappresentante sindacale.
Dunque, precari a vita. In Italia
la quota complessiva delle diverse tipologie del
precariato ha già raggiunto il 20% della forza lavoro
totale e viaggia a gonfie vele. E’ questo il
capitalismo reale di cui parlavamo all’inizio. Ed il
governo Prodi, degno interprete di questo capitalismo,
ha fatto del suo meglio per farvi corrispondere la
legislazione sul lavoro.
Precari a vita, è questo che vogliono, e
non lo nascondono neppure più, se non nella retorica di
cui ammantano certi loro discorsi. Nei fatti, comunque,
hanno le idee chiare: nessun limite viene imposto al
ricorso dei contratti a termine, neppure indicando una
percentuale massima delle assunzioni di questo tipo.
Nessun limite neppure all’utilizzazione
del lavoro interinale. Per gli interinali non c’è
nemmeno la finzione del “tetto” dei 36 mesi. E qui viene
in mente la battaglia che facemmo nel Prc, nella
primavera del 1997, contro il “pacchetto Treu” che
introduceva per la prima volta nel nostro paese il
lavoro interinale. Alla fine raccogliemmo oltre duemila
firme di dirigenti locali e nazionali di quel partito
contro quello che intravedevamo chiaramente come
l’inizio di un percorso disastroso. Altri, dal pavone
Bertinotti al suo insulso successore, assicuravano
sull’esistenza dei famosi “paletti” che ne avrebbero
limitato rigidamente l’estensione, ed i parlamentari del
Prc votarono l’infame “pacchetto”.
Oggi sappiamo almeno chi avesse ragione.
Imbroglio numero sette: contratti per
tutti i gusti, commissioni per “superarsi”
Giunti a questo punto non è il caso di
dilungarsi.
E’ evidente che la legge Biagi ne esce
confermata e rafforzata. Dunque “superata”, nel
senso già specificato di peggiorata. Qui
l’imbroglio è fatto da una serie di imbrogli, ognuno per
ogni tipologia di contratto.
Ogni forma di contratto precarizzante
viene o confermata od estesa.
Lo “Staff leasing”, ovvero il “contratto
commerciale di somministrazione a tempo indeterminato”,
cioè l’affitto di intere squadre di lavoro presso le
agenzie di lavoro interinale, non solo non viene
cancellato (come i sinistri governativi davano per
certo), ma viene addirittura incentivato con erogazioni
alle stesse agenzie.
Ai Co.co.pro si chiede di continuare a
progettare per tutta la vita.
Ai lavoratori a part time il protocollo
regala la lieta novella di una flessibilità a senso
unico: le aziende potranno cambiare l’orario a
piacimento (viva la flessibilità!), ma i lavoratori - in
questo caso quasi sempre lavoratrici - potranno opporsi
solo per “comprovati motivi di cura” (abbasso la
flessibilità!). Nessuna “doppia chiave” dunque, neppure
sui cambiamenti improvvisi di turno.
Si è scritto invece dell’eliminazione
del lavoro a chiamata, il cosiddetto Job on call.
Attenzione, non è così. A volte per “superarsi” bisogna
anche cancellare ciò che non funziona. E questo è il
caso del Job on call per il quale si prevede di
costituire una commissione per <<definire una forma di
part-time per brevi periodi che potrebbe assumere la
stessa funzione>>.
Con ogni evidenza, non di abrogazione si
tratta, ma di semplice necessità di ridefinizione di
questo strumento.
Altre commissioni sono previste su altri
temi, giusto per non precludersi la possibilità futura
di ulteriori “superamenti”.
Imbroglio numero otto: un inganno
bipartisan già consumato
Dopo i tanti imbrogli messi in cantiere,
vediamone ora uno già consumato.
Se luglio è stato il mese della grande
abbuffata, il 30 giugno 2007 è una data addirittura
epica dell’azione (contro)riformatrice. A luglio,
infatti, gli imbroglioni sono arrivati con un buon
riscaldamento: una truffa andata a buon fine (anche se
un pò meno del previsto) per preparare il grande
affondo.
Stiamo parlando del trasferimento del
Tfr (le liquidazioni) nei fondi pensione integrativi.
Se ci fosse una classifica degli
obiettivi bipartisan, perseguiti con pari tenacia,
perfidia ed inganno da entrambi gli schieramenti, questa
norma sarebbe certamente al primo posto.
Non è un caso che, di comune accordo
(sindacati in prima fila), la sua entrata in vigore sia
stata anticipata di un anno rispetto al resto della
legge Maroni di cui pure fa parte.
Il perché di tanta fretta è cosa nota:
alimentare i mercati finanziari, ingrassare i fondi
pensione, irrobustire la concertazione e la corruzione
sindacale. Il tutto, ovviamente, in nome del “futuro
delle nuove generazioni”, alle quali notoriamente
pensano senza sosta.
Per inciso, se questa fosse davvero la
preoccupazione, perché non si è costituito un fondo
integrativo volontario presso l’Inps? I lavoratori
sarebbero stati ben più garantiti, l’Inps avrebbe
incassato i soldi.
Troppa grazia! Banche e assicurazioni
sarebbero rimaste a bocca asciutta, gli speculatori
pure, così come i sindacalisti sarebbero rimasti senza
poltrone ben remunerate nei consigli d’amministrazione
dei fondi chiusi.
Che siamo diventati pazzi? Scusiamoci
perciò per l’ingenuità della domanda posta e torniamo al
dunque.
Come noto i lavoratori privati (quelli
pubblici non hanno ancora i “fondi”, ma vedrete che
provvederanno!) hanno avuto sei mesi di tempo, dal 1°
gennaio al 30 giugno scorso, per compilare un modulo per
accettare o rifiutare il trasferimento del proprio Tfr
verso un fondo integrativo.
Il ragionamento bipartisan per spingere
all’adesione ai fondi è stato il seguente: vi abbiamo
decurtato alla grande le pensioni (come siamo stati
bravi!), ma vi diamo la possibilità di rinunciare
integralmente al Tfr per potervi costruire una
(modestissima) pensione integrativa (qui siamo stati
bravissimi ed anche generosi!); per meglio incentivarvi
– dato che siete un pò zucconi – ci siamo anche
preoccupati di innalzare a dismisura la tassazione sul
Tfr, così il trasferimento nei fondi sarà ancora più
vantaggioso (qui, va riconosciuto, siamo stati
addirittura geniali).
Questo “ragionamento” (inclusa la
vanteria per la falcidia fiscale del Tfr) lo abbiamo
trovato, nei mesi scorsi, nelle dichiarazioni di
ministri e “oppositori”, di sindacalisti e di
pennivendoli addetti alle pagine economiche dei
giornali. Chi scrive ha avuto l’opportunità di leggerlo
in un bel volantino patinato della Cgil.
Ma tutto ciò non sarebbe servito a
niente se non vi fosse stato l’imbroglio bipartisan
della norma sul “silenzio assenso”.
Cosa prevedeva quella norma?
Un’autentica mostruosità giuridica, il trasferimento
forzoso del Tfr per quei lavoratori che non avessero
esplicitato la loro scelta. Che questa sia una truffa è
fuori discussione: come si possono trasferire dei soldi
di una persona verso una forma di investimento
finanziario (perché questo di fatto sono i fondi), senza
neppure una firma di quella stessa persona?
La cosa è ancora più grave perché la
legge prevede in ogni caso l’impossibilità del recesso.
Chi si troverà senza Tfr ed iscritto ad un fondo senza
nemmeno averlo scelto non potrà neppure tornare
indietro. Una enormità, quest’ultima, che ha sollevato
perfino qualche tenue critica da parte di Giuliano
Amato, preoccupato non per l’imbroglio, ma perché questa
clausola ha disincentivato l’adesione da parte di molti.
Sta di fatto che la truffa del “silenzio
assenso” è stata decisiva, dato che senza di essa
l’operazione “fondi”, pur così tanto sponsorizzata,
sarebbe miseramente fallita.
I dati ufficiali non ci sono ancora, ma
le proiezioni dicono che mentre ha aderito
esplicitamente solo il 3,7% (tre virgola sette per
cento) della platea interessata (tonfo clamoroso dei
“riformisti” nel consenso), vi sarebbe però stato un 30%
circa di lavoratori “silenti”, per legge dunque
“assenzienti” (vittoria dei “riformisti”, e degli
speculatori finanziari, nella truffa).
Ovviamente non è difficile immaginare
che la quota di lavoratori “silenti” appartenga agli
strati più deboli e precarizzati del mondo del lavoro,
giusto per colpire il bersaglio più facile.
Se qualcuno pensa che stiamo esagerando
nella descrizione di un cumulo di imbrogli, rifletta
sulla portata di quanto si è consumato il 30 giugno, nel
tripudio bipartisan Damiano-Maroni, e ci dica dov’è
l’esagerazione.
Che dire?
Dopo questa disamina c’è ben poco da
dire.
Certo, potremmo dedicarci all’analisi
politica, a cercare di capire dove andrà questa
compagine governativa, a quel che faranno gli
apprendisti stregoni del Prc e del Pdci, ai probabili
scenari dei prossimi anni.
Ma per il momento è forse più utile
fermarsi ad alcune considerazioni più generali.
La prima,
di carattere strutturale, è che il rullo capitalista
macina senza sosta, indifferente ai drammi sociali che
provoca. Ovviamente è stato sempre così, ma in altre
epoche storiche (ad esempio nel trentennio 1945-1975) le
politiche capitalistiche dovevano tener conto (in
occidente) delle necessità del compromesso sociale. Oggi
anche questo limite è travolto. Lo sappiamo ormai da
oltre un quarto di secolo, ma non per questo non
dobbiamo rilevare la crescente voracità delle classi
dominanti attuali. Una voracità che è ormai inversamente
proporzionale ad ogni progettualità sociale. So che
questa formula contiene il rischio dello scivolamento
catastrofista da cui è bene guardarsi. Ma la catastrofe
sociale (oltre che ambientale) incombe davvero, anche se
gli effetti che se ne vedono in occidente, e che qui
abbiamo cercato di esaminare relativamente all’Italia,
sono ben poca cosa rispetto a quel che avviene su scala
globale.
La seconda,
è il degrado morale e culturale, prima ancora che
politico, dell’attuale classe dirigente. Una classe
politica ormai incapace di esprimere una qualsiasi idea
di società, soggiogata agli imperativi sistemici, oltre
che corrotta sul piano individuale.
Una classe politica capace di discutere
ed accapigliarsi su come reperire la miseria di un
miliardo all’anno pur di rastrellarlo all’interno del
sistema previdenziale, quando si stima che l’effetto
cumulativo dei tagli sulle pensioni abbia prodotto negli
ultimi 14 anni un risparmio di spesa pari a circa 200
(duecento) miliardi di euro!
Oggi che tutti possono osservare
l’innocuo alternarsi di centrodestra e centrosinistra al
governo, che ognuno può rilevare l’assoluta
intercambiabilità dei ruoli, c’è forse la possibilità
che inizi a prendere forma la consapevolezza del
capitalismo reale in cui viviamo. Quel che occorre,
prima di tutto, è sviluppare la coscienza del rifiuto,
la comprensione del fatto che possiamo di dire di no,
che ribellarsi è giusto e necessario.
La terza
considerazione riguarda la sinistra. Già nel digitare
questa parola si avverte la necessità del distinguo. Ma
da tempo abbiamo imparato che non possiamo sfuggire al
marcio della sinistra reale rifugiandoci in una nuova
sinistra che non c’è.
Oggi la sinistra sembra dividersi tra
chi vuole superare la destra come guardiana del mercato,
delle liberalizzazioni, delle privatizzazioni, e chi –
nell’illusione di mantenere un presidio sociale ormai
inesistente – si concepisce come “limitatore del danno”.
I primi vanno spediti, al punto di
cambiarsi continuamente l’abito pur di realizzare la
loro missione di primi della classe nella
modernizzazione capitalistica; i secondi arrancano, ma
vivacchiano grazie al fatto che non essendoci limite al
peggio, non può esserci un limite neppure alla politica
ed alla logica del “meno peggio”. Apparentemente, i
primi sono odiosi, i secondi soltanto patetici. Errore
di superficialità! Se i primi sono odiosi per quel che
fanno e per come lo fanno, il ruolo dei secondi è per
certi aspetti ancora più ripugnante.
Nell’imbroglio generale insito nelle
politiche del governo, c’è l’imbroglio particolare dei
menopeggisti della sinistra collaborazionista di
governo. Costoro, con espressione afflitta e sofferente
ci raccontano di ciò che vorrebbero, ma non possono; di
un “nuovo mondo possibile” che per incanto avrebbe
dovuto prendere le mosse dalla coabitazione (per giunta
subalterna) con Padoa Schioppa; di una lotta che le
masse dovrebbero condurre contro il governo, mentre loro
al governo ci stanno (sia pure soffrendo, beninteso!).
Pretendere rigore teorico dagli attuali
dirigenti del Prc sarebbe come chiedere a Cicciolina di
farsi suora, tuttavia fa un certo effetto sentire
ripetere a disco rotto che “la questione del governo non
è decisiva”, che “il governo non è un fine ma
un’opportunità” e via bestemmiando idiozie. Per questi
imbroglioni al cubo stare al governo piuttosto che
all’opposizione è dunque insignificante, preferiscono
tuttavia il governo per sfruttarne le “opportunità”. Se
questo discorso avesse un senso, dovremmo dedurne che
anche la partecipazione ad un futuro governo Berlusconi
(qualora ve ne fosse la possibilità) andrebbe accolta
come un’opportunità da non perdere.
No, non possiamo chiedere a costoro
alcun rigore. Ma un minimo di conoscenza della storia
dei comunisti, visto che per ora (forse non per molto)
continuano a definirsi tali, uno se l’aspetterebbe. E
invece no. Preferiscono fare finta di ignorare quel che
ha sempre significato, nelle diverse circostanze
storiche, la questione del governo di una società
capitalista per i comunisti.
All’imbroglio si aggiunge così la
diffusione dell’ignoranza tra i loro stessi militanti.
Alla riflessione si sostituisce il chiacchiericcio
quotidiano sulla politichetta nazionale.
Che dire? Tutto serve a vivacchiare,
ma niente li salverà dalla rovina.
La quarta
considerazione riguarda un aspetto assai profondo, che
dovremo indagare meglio anche perché collegato al punto
precedente sulla sinistra.
Chi scrive non aveva dubbi sul fatto che
il centrosinistra sarebbe stato più funzionale del
centrodestra alle esigenze sistemiche ed ai concreti
interessi delle oligarchie finanziarie dominanti.
Ovvio che le banche preferissero Padoa
Schioppa a Tremonti, sicuro che Montezemolo preferisse
Prodi a Berlusconi, chiaro che Confindustria preferisse
Damiano a Maroni.
Ma tutto lasciava pensare ad una
politica dai due volti: concreta e servizievole con i
dominanti, ma attenta, almeno nelle forme, a non
inimicarsi la base sociale che li ha mandati al governo.
Questo non per una qualche attenzione alle classi
popolari (ci mancherebbe!), né per una particolare
educazione verso di esse, ma semplicemente per la
coltivazione dei normali interessi della ditta, che
almeno ogni 5 anni ha pur bisogno di quei voti per
continuare a fare fatturato e profitti.
Insomma, se Berlusconi può presentarsi
come lo sguaiato Paperone di Arcore, si poteva pensare
che i centrosinistri al governo avrebbero almeno
somigliato un pò ai vecchi democristiani, sempre in
affari con il Diavolo, ma mai mancanti a messa ed in
genere seri e compunti di fronte ai problemi della vita
quotidiana.
Ovviamente anche quella posa era un
imbroglio, sempre meglio però degli imbrogli di oggi, ed
in ogni caso gli interessi della ditta li sapevano fare
assai bene. Già, ma qual è la ditta dell’odierna
sinistra? Un tempo era il partito, ma oggi?
Per dirla in breve, la sensazione è che
essendo ormai la politica trasversale, la ditta di
riferimento non vada più intesa come metafora stante ad
indicare il partito o la corrente di appartenenza, ma
debba invece essere ormai interpretata in un senso assai
più vicino al significato letterale del termine.
Non a caso se c’è una parola su cui non
si discute, perché sacra, è appunto “impresa”.
Questo lo sapevamo, ma le discussioni di
luglio, le cento interviste del campionato nazionale dei
“riformisti”, hanno fatto emergere qualcosa di più: non
solo l’adesione totale e totalizzante agli imperativi
sistemici del capitalismo, ma l’espressione neanche
tanto velata di un profondo odio di classe verso i
lavoratori. Un odio per certi versi più profondo di
quello espresso dalla destra. Che i “soggetti del
cambiamento” di un lontano passato turbino ancora,
magari incosciamente, il sonno dei governanti di oggi?
Che la psicologia ci venga in soccorso!
Si dirà, ed è vero, che non tutti i
partecipanti a questo torneo vengono dalla sinistra. Ma
Fassino, Veltroni, D’Alema, giusto per limitarci agli
ultimi tre segretari Ds, da dove vengono?
Del resto, in precedenza, abbiamo
insistito sul concetto di imbroglio. Ed un imbroglio
continuato come quello messo in atto nel superluglio di
Palazzo Chigi che cosa esprime se non il massimo
disprezzo degli imbrogliati?
Attenzione dunque alla corretta
valutazione di costoro: una cricca al servizio delle
oligarchie finanziarie in economia e della Casa Bianca
in politica estera, ma al tempo stesso una banda
assetata di potere, disposta a qualsiasi violenza e
sopruso pur di mantenerlo insieme ai privilegi
conquistati.
Da costoro, insomma, non solo politica,
ma anche odio di classe.
Ricambiamoli con la stessa moneta.
Post Scriptum
Dato che il protocollo non è ancora
legge, molti si chiedono come andrà a finire in autunno.
Non credo che possano esserci veri
cambiamenti. O meglio, in parlamento vi sarebbe un’ampia
maggioranza trasversale pronta a peggiorare ancora il
tutto. Ma, al di là dell’infinito campionato tra
“riformisti”, non penso ve ne sia la convenienza
politica.
In quanto ai possibili miglioramenti di
dettaglio (e di facciata) reclamati dai menopeggisti che
sfileranno il 20 ottobre, saranno appunto – se ci
saranno – di dettaglio e più che altro di facciata.
Ovviamente, non è che manchino gli spazi
economici. Abbiamo già ricordato i 200 miliardi di euro
tagliati al sistema previdenziale dal 1993 al 2007. E
con il protocollo di luglio nuovi e ben più consistenti
risparmi faranno gioire i rigoristi di ogni risma.
In quanto all’età pensionabile, giova
ricordare a chi si lamenta in continuazione del
miglioramento delle aspettative di vita, che in meno di
20 anni (1995-2013, quando le nuove regole andranno a
regime) si sarà allungata l’età della pensione di
anzianità di ben 10 anni.
Dunque i rigoristi, dal punto di vista
della mera compatibilità economica, potrebbero benissimo
starsene tranquilli al riparo delle loro blindature
multiple. E dal loro bunker potrebbero fare qualche
piccola concessione qua e là, giusto per il quieto
vivere.
A luglio, però, non l’hanno fatto,
mettendo in croce i collaborazionisti.
Non l’hanno fatto sia per ragioni
ideologiche che politiche. Hanno ritenuto preminente,
prima di ogni altra cosa, affermare il completo dominio
delle oligarchie di cui sono parte, scrivendo così sulla
pelle dei lavoratori le vere ragioni fondanti del futuro
Partito Democratico.
Il “rospo” di cui abbiamo già parlato lo
aveva del resto preannunciato al Prc, dicendogli in
sostanza: fatela finita, siete ormai fuori dalla storia,
prendete atto che comandiamo noi e limitatevi a darci il
voto che altrimenti torna bau-bau Berlusconi.
Un simile affronto, successivamente
reiterato da Rutelli e da altri esponenti di spicco
della maggioranza di governo affinché lo capissero anche
i sordi, un tempo sarebbe stato giustamente considerato
un’onta da lavare nel sangue. Tradotto in atti politici:
via dal governo e tutti (rospo compreso) a casa.
Questo in tempi normali, in cui il
pensiero dominante non era ancora pensiero unico; in cui
i partiti, e gli uomini che li dirigevano, avevano
ancora una dignità ed un onore da difendere. Ma oggi?
Oggi abbiamo i facitori del danno al
governo assieme ai pretesi riduttori del danno. E come
in molti incendi estivi chi appicca il fuoco e chi cerca
di spegnerlo vive spesso fianco a fianco. In genere,
però, il bosco brucia.
La manifestazione del 20 ottobre non fa
certo pensare ad un vero sussulto di orgoglio.
Sembrerà impossibile, ma la piattaforma
(leggere per credere) non cita neppure di striscio i
protocolli di luglio limitandosi ad affermare che:
“L’attuale governo non ancora ha dato (sic!)
risposte ai problemi fondamentali che abbiamo di
fronte”. I manifestanti del 20 ottobre marceranno
quindi per una “svolta”, ma evitando di dire
intanto il benché minimo no su pensioni e legge 30.
Ma la politica è fatta anzitutto di
no. Tanto più quando, come in autunno, il
parlamento, il paese, la stampa parleranno di queste due
cose concrete che riguardano la grande maggioranza degli
italiani, non certo di “svolte”.
Il senso di questa manifestazione è del
resto reso evidente dalla data scelta.
Perché ottobre, quando tutti sanno che
la finanziaria, che imbarcherà in qualche forma i
protocolli di luglio, dovrà essere presentata dal
governo entro il 30 settembre? E quando tutti sanno che,
dati i numeri al Senato, andrà avanti presumibilmente a
colpi di fiducia?
Non disturbare il manovratore è la vera
preoccupazione di costoro, mugugnanti perché in
difficoltà, ma pur sempre “leali” come solo i veri
collaborazionisti sanno essere.
E perché, se proprio ottobre deve
essere, il 20 e non ad esempio il 13? Ce lo spiega (ma
guarda un pò!) Gianfranco Fini, che essendo impegnato a
mettersi in mostra nel centrodestra, pare stia
organizzando per quella data una manifestazione per
oscurare un pò le primarie del Partito Democratico
previste per il 14 ottobre.
Racconta Fini alla stampa di aver
telefonato nei giorni scorsi a Giordano per informarsi
se per caso Prc e soci preparassero qualcosa per quel
giorno. Giordano lo ha rassicurato: ci avevano pensato,
ma poi hanno risposto sì alla richiesta di compiere un
gesto di cortesia nei confronti di Veltroni e compagnia.
Ecco perché sarà il 20 ottobre, e non il 13, ad essere
candidato a diventare giornata mondiale dell’ipocrisia.
Quando si dice: “lotta dura senza
paura!”
Come finirà allora?
Alla fine qualcosa si inventeranno, non
è la fantasia che gli manca. Che cosa, probabilmente non
lo sa ancora nessuno. Ma non importa, quel che è certo è
che si tratterà di un pò di fumo, che non influirà sulla
qualità e sulla quantità dell’arrosto cucinato nel
superluglio delle classi dominanti.