L'autodeterminazione ed il suo valore
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13 Novembre 2008 :::: 14:46 T.U. :::: Analisi ::::
Israel Shamir
di Israel Shamir*
Discorso pronunciato il 12 ottobre 2008 al
Forum
Pubblico Mondiale del Dialogo di Civiltà, tenutosi a
Rodi.
Amici,
c'incontriamo in un momento fatale e meraviglioso. La
grande crisi finanziaria sta portando al collasso
dell'egemonia; le reti intessute per catturarci si
stanno disfacendo.
Siamo come prigionieri che vedono i propri carcerieri
agitarsi in preda ad una terribile confusione.
Inizialmente proviamo paura: forse non ci passeranno la
zuppa per il rancio; forse i nostri piccoli privilegi,
accumulati con pazienza, svaniranno. Ma non abbiate
rimorsi, dubbi né paure: quella che si spalanca di
fronte a noi è la via della libertà. I muri crolleranno,
i carcerieri se la daranno a gambe, e noi saremo liberi!
I carcerieri ed i loro accoliti provano a convincerci a
sostenerli. Altrimenti – affermano – non saranno in
grado di comandare come hanno fatto finora e sarà
l'anarchia_ non ci sarà lavoro né stipendi. Se
accettiamo di stare al loro fianco, ci promettono di
migliorare le nostre condizioni. Rifiutate! Nessun
supporto dev'essere dato ai carcerieri. Forse perderemo
una porzione di zuppa, ma il mondo intero sarà nostro.
La poltiglia d'azioni ed obbligazioni è solo carta senza
valore; l'economia reale non sarà intaccata. Anche se
tutti i dollari del mondo dovessero svanire, noi
lavoratori sopravviveremmo, così come i Russi sono
sopravvissuti alla polverizzazione del rublo ed i
Tedeschi a quella del marco.
Oggi, possiamo scrollarci di dosso l'egemonia culturale
del Centro; la dipendenza semi-coloniale dell'Oriente
finirà. Nel nuovo mondo avremo bisogno d'un sistema
delle relazioni internazionali su base egualitaria. Nei
due secoli passati, l'egemonia occidentale ha
costantemente frammentato l'Oriente, facendolo a
brandelli. Oggi possiamo cominciare il processo opposto,
quello dell'integrazione. In passato i nostri valori
sono stati sopraffatti dalla loro egemonia, ma in futuro
prevarranno assieme ai nostri interessi. Solo un anno fa,
immaginare ciò sarebbe stato un sogno ingenuo. Oggi,
grazie al collasso finanziario, è realmente possibile.
L'autodeterminazione nazionale è una questione basilare
nel dialogo pluricentenario tra Oriente ed Occidente. Le
due parti si sono fraintese, anche (o specialmente)
quando hanno usato termini identici.
L'autodeterminazione nazionale ha davvero due
significati, così come “le radici d'un albero in una
piazza quadrata” sono diverse dalle “radici quadrate”.
Quell'espressione si può riferire sia
all'autodeterminazione politica sia
all'autodeterminazione sistemica.
L'autodeterminazione sistemica è vecchia, vecchia quanto
l'uomo. L'autodeterminazione politica è invece una
recente invenzione di Woodrow Wilson.
L'autodeterminazione sistemica è concetto vicino a
quello di “sovranità”, e si può descrivere come il
diritto d'una nazione (intesa come Stato) a scegliere
liberamente i propri sistemi politico, economico,
sociale e culturale, ossia a vivere secondo i valori che
le sono congeniali.
L'autodeterminazione politica è il diritto d'un popolo (inteso
come unità etno-culturale) di creare uno Stato, o
aderirvi o secedervi. Entrambe le forme
d'autodeterminazione sono sancite come diritti nazionali
dalla Carta delle Nazioni Uniti (articolo 1, paragrafo;
articolo 55, paragrafo 1), ma le loro applicazioni sono
piuttosto diverse.
1. Autodeterminazione politica
Il diritto delle nazioni all'autodeterminazione politica
è parte integrante del paradigma moderno: è stato
brandito dall'Occidentale nel quadro d'una tendenza
romantico-nazionale, e sfruttato per strappare i Balcani
ed il mondo arabo da quella grande comunità orientale
ch'era l'Impero Ottomano. I territori che hanno messo in
pratica la propria “autodeterminazione”, per pura
coincidenza, sono divenuti colonie, protettorati o
dipendenze britanniche, poi passati sotto l'egida della
Pax Americana. Il realizzarsi dell'autodeterminazione
politica col disfacimento dell'Impero Ottomano determinò
massacri e pulizie etniche su scale mai viste prima.
Smirne e Salonicco, Greci e Turchi, Armeni e Curdi, in
ultimo Albanesi e Serbi, sono stati tutti vittime di
quest'arma di distruzione di massa.
L'Occidente ha sostenuto l'applicazione
dell'autodeterminazione politica nei confronti
dell'Oriente, invocandola spesso per perorare
l'indipendenza di Tibet, Kashmir, Cecenia, Belucistan,
Waziristan, Kurdistan eccetera. La piena messa in
pratica di questo principio avrebbe disintegrato
l'Oriente in centinaia di staterelli, tutti aderenti al
medesimo sistema di valori dell'Occidente liberale.
Si colgano le sottigliezze della storia. Nel XIX secolo,
quando l'Occidente era frazionato in Stati nazionali e
l'Oriente organizzato in grosse unità territoriali
sovranazionali (le comunità della Turchia ottomana,
dell'Austria-Ungheria, della Russia, della Cina e
dell'India), gli Occidentali combatterono gli Orientali
non solo col ferro e col fuoco, ma pure spargendo il
seme dell'identitarismo nazionale (etnico) e del diritto
all'autodeterminazione (compresa la secessione e
l'indipendenza).
Nel XXI secolo, dopo aver predicato per duecent'anni
quei princìpi, l'Occidente si trova unito in due grandi
entità sovranazionali (Stati Uniti d'America e Unione
Europea), mentre l'Oriente è frazionato in dozzine di
Stati, e la tendenza alla frammentazione non accenna a
sopirsi. In altre parole, Occidente ed Oriente si sono
scambiati di posto; con la superiorità occidentale ben
consolidatasi.
Questa trasformazione ci permette di riconoscere
l'autodeterminazione politica per la potente arma
ideologica che è: uno strumento dell'Occidente creato
allo scopo d'indebolire e colonizzare l'Oriente. Una
causa nient'affatto secondaria della dissoluzione
dell'Unione Sovietica fu proprio l'attivazione di questo
meccanismo, una mina ideologica latente ch'era stata
innestata nel corpo dell'Unione Sovietica, per ragioni
storiche, proprio dal Partito Comunista. I marxisti
russi avevano ereditato questo principio dai loro
omologhi europei, nei quali era connaturato in virtù del
loro punto di vista eurocentrico. Il partito di Lenin ne
minimizzò l'applicazione, ma non poté esorcizzarlo del
tutto. Nel 1991, fu sfruttato per spaccare l'Unione
Sovietica ed infliggere grave nocumento a milioni di
cittadini. Milioni furono infatti i rifugiati, e molti
di più persero il diritto ad usare il linguaggio nativo
quando non i diritti civili più basilari.
Questo “diritto” falso e nocivo andrebbe cancellato dai
libri e negato con forza, poiché la sua stessa presenza
causa danni e spargimenti di sangue. L'Oriente (intendendo
con ciò le terre eurasiatiche ad est dei paesi
dell'Europa Occidentale) può così tornare alle sue
origini: in altre parole, può utilizzare l'esperienza
dell'integrazione europea e ricostituire una grande
comunità che unisca le sue nazioni.
Tutte le grandi nazioni asiatiche ne hanno bisogno:
- la Cina, perché è impossibile accettare la secessione
del Tibet, che renderebbe due milioni di Tibetani (o,
meglio, la loro élite clericale) proprietari di
milioni di miglia quadrate di territorio, mentre i due
milioni di non tibetani che vivono nella regione
perderebbero i propri diritti, quando non le proprie
vite. L'autodeterminazione politica del Tibet
provocherebbe una vasta pulizia etnica; indebolirebbe
sia la Cina sia l'India (che possiede parti del “grande
Tibet” storico) e costituirebbe una nuova base militare
occidentale nel cuore stesso dell'Eurasia;
- l'India, poiché la secessione del Kashmir sarebbe
parimenti inaccettabile. Un Kashmir musulmano
indipendente sarebbe incapace di mantenere il controllo
solo su due terzi del suo territorio attuale, poiché i
buddhisti Ladakh e Hindu Jammu, oggi parte dello Stato
del Jammu&Kashmir, non seguirebbero Srinagar. La
gestione delle ondate di rifugiati musulmani che
lascerebbero il Ladakh ed il Jammu, e quelle in
direzione inversa degli indù in fuga dal Kashmir,
rovinerebbe il paese per secoli, a prescindere se la
secessione rinfocolasse o meno l'ostilità tra India e
Pakistan. Piuttosto, si potrebbe intraprendere un largo
progetto integrativo per rivedere la fatale partizione
del Raj e quella lungo la Linea Durand. Il Pakistan, uno
“Stato fallito”, sarebbe soppresso: una sua parte
rientrerebbe nella madrepatria indiana, un'altra si
ricongiungerebbe con l'Afghanistan;
- la Russia, per cui è in dubbio se l'applicazione
dell'autodeterminazione politica verificatasi nel 1991
entro il territorio dell'allora Unione Sovietica avrà un
effetto duraturo. La secessione dell'Ucraìna ha dato
cattivi frutti: il regime filoccidentale di Juščenko ha
messo al bando il russo, prima lingua per la maggioranza
della popolazione del paese. Alla gente non è permesso
usare il russo; persino le opere del grande scrittore
ucraìno Gogol' sono state classificate come “letteratura
straniera”, essendo scritte in russo. Juščenko ha
rifornito la Georgia d'armi moderne ed è deciso a
condurre il suo paese nella NATO, rendendo così
l'Ucraìna un nemico della Russia. La Georgia è una
tirannide criminale: metà della sua popolazione è
fuggita in Russia per sottrarsi a Saakašvili ed al suo
regime “indipendente”.
Il dubbio “diritto all'autodeterminazione politica”
andrebbe controbilanciato con due princìpi ben più
essenziali: vietare la discriminazione e prevenire bagni
di sangue. La creazione di nuovi Stati su base etnica,
religiosa o culturale comporta inevitabilmente
spargimenti di sangue e discriminazioni. Per esempio, la
creazione dell'Estonia, della Lettonia e della Georgia
indipendenti ha portato alla brutale discriminazione
contro i non estoni, i non lettoni ed i non karveli, che
costituiscono quasi la metà della popolazione di questi
paesi. Al primo tentativo (dopo Versailles) di sottrarre
queste aree alla Russia e renderle indipendenti, le
élites locali espropriarono ed espulsero i Tedeschi
dall'Estonia e dalla Lettonia e gli Armeni dalla
Georgia. Le vittime del secondo tentativo, negli anni
'90, furono i Russi in Estonia e Lettonia e gli Abkasi e
gli Osseti in Georgia. Ciò ha causato reazioni a catena:
mentre i Tedeschi espulsi dai paesi baltici diedero
linfa al militarismo hitleriano, gli Osseti e gli Abkasi
hanno creato un nuovo problema, quello dei rifugiati
georgiani provenienti dalle loro regioni.
Un matrimonio, come noto, può fallire; ma pure un
divorzio!
Il divorzio tra le repubbliche sovietiche avvenuto nel
1991 ha fallito. La via d'uscita sta nella
reintegrazione dell'area postsovietica, seguita dalla
ricomposizione di altre grandi comunità (“imperi”)
orientali; la riunificazione delle terre musulmane ed
ortodosse - un tempo unite sotto gl'imperi bizantino ed
ottomano - in una Comunità dell'Oriente, sotto gli
auspici di Russia e Turchia, può rovesciare il processo
di frammentazione che ha creato una dozzina di Stati
balcanici, spezzato l'Iràq in tre parti, strappato il
Libano alla Siria e il Kosovo alla Serbia. Anziché
permettere al Kashmir di secedere, India e Pakistan
dovrebbero riunirsi.
La riunificazione è la via per fermare discriminazione,
pauperismo e sottomissione all'Occidente, mali che
colpiscono tutte le nazioni d'Oriente. L'attuale
collasso del sistema finanziario occidentale rende
possibile e desiderabile siffatta azione.
La preminenza del principio di non discriminazione
rispetto a quello d'autodeterminazione andrebbe
proclamato ed imposto nel Vicino Oriente. Lo Stato
ebraico è un progetto-pilota occidentale, creato
destinando una fetta della Siria alla realizzazione del
“diritto” del popolo giudaico all'autodeterminazione
politica. È divenuto una costante fonte di
discriminazione, incoraggia secessioni e separatismi, fa
da base militare per l'Occidente, è uno Stato con alle
spalle una lunga storia d'aggressioni ai suoi vicini,
minaccia d'attaccare Siria e Iràn, trasgredisce alla non
proliferazione nucleare. Tutto ciò si può curare
riunificando la Palestina in un unico Stato non
segregazionista. Siccome la risoluzione dell'ONU del 29
novembre 1947 non è stata rispettata, e non è sorto
alcun Stato palestinese a se stante, causa
l'intransigenza delle élites ebraiche, tale disegno
andrebbe abbandonato a favore d'un progetto
d'integrazione. La crazione d'uno Stato non
espansionista né segregazionista al posto dello Stato
ebraico potrebbe rappresentare il punto di svolta per
l'Oriente, dalla frammentazione all'integrazione.
2. Egemonia ed autodeterminazione
La strada per l'autodeterminazione sistemica delle
nazioni – la via al loro diritto di vivere secondo i
propri valori – è bloccata dall'egemonia occidentale.
Quest'egemonia è non solo materiale – quella che
s'esprime con la conquista militare e la colonizzazione
– ma pure culturale. Tale egemonia culturale ha radici
profonde, cominciando dalle antiche rivendicazioni del
papa romano riguardo la sua preminenza su tutti i
patriarchi. Quest'egemonia è collegata – pur non
coincidendovi del tutto – con la visione del mondo
eurocentrica. L'eurocentrismo è, sostanzialmente, una
visione campanilistica di gente che non conosce a
sufficienza il resto del mondo e dunque pecca di
scorrettezza politica. L'egemonismo occidentale supera
però di gran lunga il campanilistico eurocentrismo.
Edward Said ha correttamente notato il desiderio di
dominio politico ed ideologico che soggiace alla visione
culturale eurocentrica.
Il dr. J.C. Kapur ha citato la “minuta Macaulay” allo
stesso proposito: «Noi [Britannici] non potremo mai
conquistare l'India senza averne spezzato la spina
dorsale, ossia il suo retaggio spirituale e culturale.
Se gl'Indiani penseranno che tutto ciò ch'è straniero ed
inglese è buono e più grande, perderanno l'autostima, la
cultura nativa e diveranno così come noi li vogliamo:
una nazione davvero sottomessa». Non è questa un'esatta
citazione, ma è la summa del discorso di Macaulay. In
altre parole, l'egemonia culturale – per usare categorie
gramsciane – è un prerequisito per un duraturo dominio
politico ed economico.
Nell'ultimo quarto del XX secolo, l'egemonia è mutata:
la base su cui poggia s'è ristretta sensibilmente.
Dapprima, è divenuta egemonia solo statunitense; in
seguito, è diventata egemonia delle élites statunitensi,
finanziariste e fortemente giudaizzate. Questa non è più
egemonia occidentale, ma egemonia contro l'Occidente
così come contro l'Oriente. Il paradigma egemonico
liberale è una forza ostile anche ai popoli occidentali:
la lunga tregua tra gli egemoni e le genti
dell'Occidente è finita.
Gli egemoni negano il diritto all'autodeterminazione
sistemica. Negano cioé:
- il diritto degl'Iraniani a vivere secondo la propria
religione e sotto la guida dei loro capi spirituali;
- il diritto dei popoli nordcoreano e cubano di restare
comunisti;
- il diritto dei Palestinesi d'eleggere un governo
religioso e solidarista, come quello di Hamas;
- il diritto di Russi e Malesiani a mantenere la
televisione sotto controllo nazionale.
Inoltre, negano:
- il diritto degli Austriaci ad eleggere un governo
destrorso;
- il diritto degli Statunitensi a bandire l'aborto e
celebrare apertamente il Natale;
- il diritto di Francesi e Tedeschi a disapprovare la
visione del mondo giudaica;
- il diritto degli Svedesi di limitare l'immigrazione e
la promiscuità culturale.
In breve, gli egemoni negano il diritto delle nazioni a
scegliere il loro sistema politico e vivere secondo i
propri princìpi. Esiste – affermano loro – un unico
sistema di valori permesso ed accettabile (quello
occidentale, liberale, laico e civilizzato) mentre gli
altri sono inferiori, errati, criminali e fallaci.
Le nazioni d'Occidente sono ancora soggiogate e non
osano ribellarsi apertamente agli egemoni. L'Oriente ha
un atteggiamento diverso: nazioni e civiltà hanno il
diritto di vivere come vogliono. L'Occidente può rompere
con quest'egemonia oppure accettarla, se le garba.
L'Oriente rivendica il medesimo diritto di scelta.
Ciò è stato proclamato dal presidente russo Dmitrij
Medvedev nei discorsi in cui ha auspicato il
multipolarismo. La dottrina della multipolarità non si
limita a moltiplicare le strutture di potere, come
affermano taluni. Essa va ben oltre, riconoscendo
legittimità ad una pluralità di sistemi politici ed
etici nonché il diritto all'autodeterminazione sistemica.
Gli egemoni, in teoria, accettano questo diritto, ch'è
riconosciuto dalla Carta delle Nazioni Unite, ma nella
pratica lo negano lottando contro i sistemi di valori
altrui, richiedendo la sottomissione alla loro egemonia
ed al loro modello di civiltà.
Ora possiamo riconsiderare la Guerra Fredda: non fu un
conflitto ideologico tra due sistemi politici, bensì la
lotta dell'Oriente per vivere secondo i propri valori.
L'Oriente comunista non cercò d'imporre i suoi valori
all'Occidente, ma fu quest'ultimo a negare al primo il
diritto di vivere secondo lo stile prediletto.
Noam Chomsky ha cercato di ridurre tale questione
dell'egemonia al suo aspetto economico. Egli scrive che
gli Statunitensi, in quanto portatori dello spirito
egemonista occidentale, cercherebbero “solo” accesso ai
mercati ed alle risorse degli altri paesi – il “diritto
al saccheggio”, per usare le sue parole. Ciò da solo
sarebbe già abbastanza brutto, ma gli egemoni non si
soddisfano colle sole ruberie; essi necessitano non solo
del tuo denaro e del tuo lavoro, ma anche della tua
anima.
A tal scopo, hanno costruito un sistema in cui una
singola civiltà controlla il mondo: utilizzano l'ONU, i
tribunali internazionali, la Corte Mondiale, l'AIEA ed
altre agenzie. I dirigenti dell'Oriente ancora non
capiscono che questi organismi sono in mano agli egemoni
e servono a minare l'indipendenza dell'Est.
Molte nazioni riconoscono che gli egemoni occidentali
non si soddisfano con la sola preda finanziaria: essi
pretendono la sottomissione al loro diktat culturale.
Questa è la ragione per cui tutti i dirigenti russi
post-sovietici (incluso il signor Medvedev) hanno
promesso d'aderire ai valori dell'egemone, pur tentando
di difendere le proprie risorse naturali. Accettano di
partecipare ai vari eventi “auschwitziani”, costruire
musei della tolleranza e denunciare false offensive
razziste ed antisemite. Fanno ciò per essere depennati
dalla lista dei nemici: “l'asse del male”. Ma la Russia
– al pari d'altre terre meno centrali – non s'è mai
realmente sottomessa al paradigma liberale ed è perciò
rimasta un'avversaria, a dispetto dei proclami dei suoi
dirigenti.
Un sistema di valori definisce vizi e virtù, e non è
uguale in tutte le civiltà. Sotto il giogo dell'egemone,
l'umanità non si limita a passare dal carretto alla
macchina a motore, ad abbandonare le piacevoli
conversazioni nei salotti e nei giardini per guardare la
“CNN” o “MTV”. La parte più avanzata e progredita
dell'umanità ha anche forgiato novelle virtù dai vecchi
vizi: il goloso diventa un critico della ristorazione;
l'invertito mette in mostra il proprio orgoglio per le
vie della città; l'iracondo invoca il “giusto”
bombardamento di Tehran; l'accidia è stata promossa a
stile di vita. L'avidità è divenuta la più alta qualità
dell'uomo nuovo.
I sistemi si distinguono per il diverso atteggiamento
verso Dio. L'Oriente – al pari dell'Occidente
tradizionale – predilige la solidarietà e l'amore per la
divinità, rigetta l'avidità; il paradigma egemonico
liberale, invece, celebra l'individualismo, indica
l'avidità come suprema virtù e relega il divino ad un
ruolo minore. La scelta – affermata nel Vangelo – tra
Dio e Mammona non è mai stata così valida e palese.
Ora che i castelli di carta eretti da Mammona collassano,
l'illusione del mercato come sola misura delle cose
svanisce. L'avidità distrugge sempre le società. Le
società che scelgono Dio sono più sagge di quelle che
optano per Mammona.
In Occidente, i credenti sono perseguitati. Negli USA è
proibito persino fare gli auguri di Pasqua o Natale:
taluni insegnanti sono stati licenziati per questo
motivo. D'altro canto, l'Oriente trabocca ancora di fede.
In Russia, le chiese sono gremite, le feste religiose si
celebrano in piazza ed il desiderio di solidarietà è più
forte che mai. La stessa tendenza s'osserva in Palestina,
Turchia e Iràn, dove la gente preferisce la solidarietà
religiosa al freddo e razionale nazionalismo laico.
Potrebbe essere lo stesso in Occidente, se i grandi
maestri spirituali del secolo scorso, Simone Weil e T.S.
Eliot, fossero oggigiorno almeno considerati. La loro
sconfitta ha permesso l'ascesa dell'egemonia liberale.
Solo dopo la sconfitta dell'egemonia le civiltà saranno
in grado di rispettarsi l'un l'altra e dialogare,
accettando la reciproca autodeterminazione sistemica.
Alfine, abbiamo l'occasione di realizzare questo sogno.
(traduzione di Daniele Scalea)
* Israel Adam Shamir è un giornalista e saggista
russo-israeliano. Tra le sue opere più famose e
pubblicato anche in traduzione italiana è Carri
Armati e ulivi della Palestina. Il fragore del silenzio
(CRT 2002).
A “Eurasia” ha collaborato col pezzo “Il fiore e la
croce”, apparso sul numero 1/2005.
I suoi due ultimi libri sono: Cabbala of Power
(BookSurge Publishing, 2008) e Masters of Discorse
(BookSurge Publishing, 2008).
Per le Edizioni all’insegna del Veltro (Parma) è in
corso di stampa una raccolta dei suoi ultimi saggi.
Fonte:
http://www.israelshamir.net/English/rhodes.htm
http://www.eurasia-rivista.org/cogit_content/articoli/EkkyVlZVyFuRwbyYYa.shtml